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TÓRBIO NICOLÒ MASIERO SGRINZATTO
20/06/2020

TÓRBIO NICOLÒ MASIERO SGRINZATTO

Una galleria vera dopo mesi di visite virtuali, sempre guidate, ma senza trasporto. Leggi Nicolò Masiero Sgrinzatto (n. 1992, Arre, PD, IT), vai a curiosare nelle vetrine. Vedi, guardi. Senti, almeno a tratti ascolti. Questa mostra è come una sagra. Il suono alle tue spalle convive con l’immagine che ti salta in faccia.

I titoli arrivano dal Veneto, nel bagaglio dell’artista. Tórbio, ovvero torbido. Come vedere torbido, con la testa annebbiata, come dopo una sbronza atomica fatta di salti di gradi. Da “turba”, che è confusione, scompiglio.

Nella mischia, una cosa che per com’è fatta non può avere un nome suo si è ribaltata. La si dica argàgno, che sta per “arnese”, e nella sua etimologia ha dell’ordigno. In questa sagra è la giostra, ma non funziona. Sdraiata, forse spiaggiata, forse già esplosa. Di fuori, è composta: non ruota, non scaccia l’aria alla maniera centrifuga. Avviluppata, serrata a scrigno, è stata squarciata. Dentro, è scomposta: la ferita aperta invita il tuo sguardo a scoprirne l’anatomia, a leggere i segnali delle sue interiora. Lamiera, legno e cavi.

Di fronte a una breccia, quando il dentro trabocca in modo evidente, l’occhio è pronto a scommettere sull’avvenuta esplosione. Ma il tuo orecchio, attento, lo smentisce. Non è un soffio, né uno sfiato, quello che si libra dalla carcassa. È chiaramente un risucchio, un sibilo aspiratore. Argàgno è l’anti- giostra. Non si muove, aspira.

E non c’è sagra senza tiro al bersaglio. ! (punto esclamativo), onomatopeica di una pallina che, sputata dalla pistola ad aria compressa, colpisce una lattina. Chi ha sparato? E a chi ha sparato? Di fronte all’ingresso, quattro porzioni di bancali di legno riciclati nascondono sensori che mirano ai visitatori. I solenoidi scattano, percuotono il legno e le vibrazioni vengono amplificate. Il visitatore visto è il bersaglio, l’opera che credevi preda del tuo sguardo è in realtà il tiratore scelto: ti aveva già avvistato in tempi non sospetti, quando ancora eri un passante, prima che il tuo naso finisse contro la vetrina.

Se ti guardi attorno, tracce di spari e di scoppi sono
disseminati un po’ dappertutto. Si è provato a dar
loro un contegno, a metterli in forma. Eppure,
conservano la natura dell’esplosione, che è infine
forma, ma soltanto infine.

Ci sono ad esempio quegli “gnari” aggrappati alla parete di destra, gnaro per dire “nido”, così per intendersi. Neri, scorpionici a un primo esame, sono i resti di certe esplosioni capitate in strada, sono le viscere di pneumatici dismessi, abbandonati. Una volta scoppiati s’è visto cosa c’era dentro. Cavi d’acciaio come scheletro, come vene, come nervi. Estirpati, espiantati, sradicati. Ricomposti, acconciati, arrangiati. Ma i nervi restano nervosi: si può tentare di ammansirli, non saranno mai addomesticati.

Addomesticare uno scoppio è un bell’esercizio. Si prova a fermarlo, per vedere che forma ha. Sulla controfacciata della galleria, ne trovi alcuni che hanno preso il titolo di sbaro. Pigmento naturale sganciato da una certa altezza sopra il foglio bianco. Prima esplosione, polvere nera. La forma si vede, si è fermata sulla carta. Ma per mostrarla occorre fissarla, ci vuole un’impronta. La luce, più o meno intensa, è catturata da un pannello solare. Attiva un motorino preso in prestito dal cellulare. Vibra, batte il colore sulla carta, più o meno forte secondo il bagliore che lo alimenta. L’artista può quasi alzare le mani, mimare la sua innocenza: è la luce che imprime, che impressiona.

E alla luce come autrice Nicolò Masiero Sgrinzatto dà grande fiducia, lascia che prenda degli appunti imprecisi per lui. Pannelli di MDF sistemati al sole con una lente d’ingrandimento fanno da supporto, da strumento tecnico. La luce scava la superficie. Brusa, dice un signorotto veneto a passeggio di fronte allo studio con il dito puntato sul pannello. Intuisce che Nicolò è lì dentro, al lavoro. Le ore passano, il Sole si sposta, la Terra si muove. La luce “brucia” e scrive, serba una traccia del tempo che l’artista trascorre in studio, del tempo che scorre fuori dallo studio. Tiene memoria del giorno dedicato alla ricerca. Poi viene il buio, il lavoro si interrompe. I pannelli raccolti tornano in magazzino, sono pagine di un diario di bordo. Impronte della luce che ha illuminato il nido dell’artista, esposte sulla parete sinistra della galleria.

Il rumore della mostra, come il rumore della sagra, è un po’ denso e un po’ rarefatto. Agli spari, agli scoppi e ai suoni della giostra si sommano gli altri. Campionari di rumori che distingui, ma non cataloghi. Ti guardi in giro, dov’è la sorgente? Voci acusmatiche, corde vocali senza corpo. Un cumulo, unmúcio di suoni, musica e versi. Ventiquattr’ore di tracce audio delle Instagram Stories pubblicate dai contatti dell’artista, registrate solo quando fruite. Nel “mucchio” ci sono anche silenzi, pause, attese. In un tempo abituato a guardare le storie, che effetto ti fa ascoltare le storie?

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