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Ritual Acts
25/09/2021

Ritual Acts

Galleria Ramo è lieta di presentare; Ritual Acts (Atti rituali), con le opere dell'artista emiliano Matteo Messori e dell'artista americano Dave Swensen, seguito da un testo critico di Lorenzo Madaro.

C’è una linea che congiunge vita, pittura, quotidiano, disegno e scultura. È quella della ritualità, che si declina con gesti volontariamente semplici, capaci di articolare segni e di esprimere significanti, di occupare spazi e di ricomporli. Di farci osservare i nostri stessi movimenti attraverso una luce straniante, eppure tangibile, proprio perché vera e quindi autentica. E di farci comprendere che è nella apparente banalità di un presente dilatato che si incontrano i bagliori di un giorno di luce. Appartiene al lessico di ogni essere vivente, il rito: si esprime con rigore o disordine, appare come spazio di connessione tra realtà e ciò che è esterno ad essa ed è costruito come luogo di ritorsioni emotive e esplicazioni di senso. Il rito è anche tutto questo.

Le forme dissimili combaciano, certe cose accadono soltanto nella pittura e nella scultura o anche nella vita? Anche questo è sintomo di una possibilità ritualità degli opposti, che incontrandosi sono capaci di esistere senza mezzi termini.
C’è, nel perimetro di un rito, qualcosa di invalicabile. Anzi, di inestricabile. Oltre un gesto, un segno, un corpo, un’azione reale, vi è qualcosa di inaccessibile. È l’altro lato della ritualità, quella arcana. Matteo Messori e Dave Swensen, pur provenendo da indagini e interlocuzioni dissimili, si incontrano proprio in questo lato b del rito. Attraverso la pittura e la scultura del primo e mediante il lavoro pittorico del secondo, questa mostra è un possibile inventario aperto di forme, affiancamenti, paradossi e convivenze (pacifiche e non) che ci parlano di questo, senza cadere nella narrazione, ma rimanendo ancorati a un terremo rigoroso e per certi versi minimalista, anche quando si approda alle immagini.

Entrambi, infatti, sono costruttori di immagini o di segni che tracciano possibili immagini. Le costruiscono attingendo a differenti registri, usando la pittura come un corpo di stratificazioni costanti nei confronti di un possibile reale da inventare, o perlomeno da scrutare come un approccio esterno, antropologico. Ricorrere al rito vuol dire – Ernesto De Martino ce l’ha insegnato con sistematica chiarezza – restituire l’uomo alla vita, quando il rito è pianto rituale post mortem. Nei due artisti in mostra, invece, non c’è un dramma specifico da rintracciare epidermicamente, ma un lavoro di ricerca attorno alle tracce di un qualcosa di più aperto e fluido. Corpi e volti senza identità appaiono, come spettri, nelle tele di Swensen: placidamente assorti nelle loro faccende sembrano spazi astratti di azioni effettivamente ovvie. Sono assorti nei loro perimetri di pensiero, assorbono e restituiscono luce e oscurità, mentre una pittura concentrata traccia spazi cromatici ineludibili. Questi suoi corpi non hanno un peso specifico, sono aerei, a volte inavvertibili. Si contrappongono al contatto delle superfici pietrose che costituiscono l’alfabeto plastico delle sculture di Messori. Sono totemiche, piccole pietre rintracciate nello studio e che assumono le fattezze di forme da contemplare. I segni blu tracciano unioni, planano sulle superfici e diventano colonne ancor più consistenti. Sono i suoi anziani saggi, presenze a cui rivolgersi per ritrovare un ordine. Sono anch’essi il frutto di un lavoro rituale, che riesce ad individuare nel campo minato delle forme impraticabili un ordine apparente. Sono forme che vagano e fluttuando nello spazio cercano un proprio equilibrio apparente. Sono forme autarchiche che si contrappongono ai volumi dolci delle pitture su denim concepite in tempi recentissimi. I titoli ci indicano richiami mitologici ed ancestrali. Mentre nelle opere bidimensionale di Swensen la stratificazione ossessiva di brandelli morbidi di pittura costituisce presenze e assenze. Ma anche una cauta ferocia nei morbidi segni dei lineamenti dei corpi e delle loro stesse negazioni buie.

La loro arte curva l’ordine geometrico di ciò che ci circonda. Il corpo a corpo tra le forme e le immagini – e la loro stessa negazione – costituiscono una costellazione d’assedio. Il loro lavoro è un deposito di segni vivi, reali. Che ci interrogano e a cui dobbiamo dare conto.

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