24/09/2020
Edoardo Manzoni I Il primo canto
Testo a cura di Piergiorgio Caserini
Si fa fatica oggi a capire che è all’animale che dobbiamo
il nostro essere umani. Agli animali detti da compagnia,
a quelli detti selvatici, la storia ha progressivamente
levato brandelli, subordinandone le qualità
e trasferendole a oggetti più maneggevoli, a specchi
nei quali è più facile, per come sono andate le cose,
ritrovarsi. Si è detto che sono esseri privi di mondo,
mancanti di tecnica, ma la verità è che il nostro pensiero
della tecnicità tanto quanto i rapporti che
intratteniamo con lo spazio, le relazioni cognitive,
tutto, in fondo, è debitore e ha a che fare con un’idea
di animalità che accompagna l’umano. Nascosto
dietro a un’immagine strumentale, dietro all’addomesticamento
e all’esoticizzazione, l’animale è una delle
grandi latenze della storia.
È così che Edoardo Manzoni pensa l’animale
nella sua pratica artistica, attraverso quel rapporto
che si è da sempre dato tra l’umano e il suo specchio:
la caccia. Ma non si fraintenda. La caccia non è qui
quell’attività ludica che fa della morte un hobby, un
divertissement, ma quel groviglio di relazioni che ha
avuto luogo nella danza macabra tra preda e predatore.
Sono i primi passi che hanno portato l’umano a
cercare di comprendere l’animale e di comprendersi
attraverso esso nelle imitazioni, nelle mappature dei
territori, nella progettazione degli strumenti, mossi
dalla fame, dalla ricerca di familiarità nell’avvicinamento.
Nascondimento, attesa e disvelamento si danno
come presupposti della caccia, e sono i caratteri
della scena della mostra Il Primo Canto di Edoardo
Manzoni. Ma lo spettatore non incontrerà l’animale;
vedrà piuttosto le gabbie vuote, forse intuirà le trappole
tese, sapendo che questo persiste ad acquattarsi,
nel silenzio. Preda e predatore scompaiono per
spingere all’ascolto, al dettaglio, all’attenzione al
movimento. Si vuole dare massa all’invisibile, rendere
un’immagine concreta. E non è sufficiente la vista. È
necessario mettere in gioco la complessione corporea
per intero, farla lavorare con un’immaginazione
che coniuga l’occhio al naso, alla mano, al piede. Il
Primo Canto è l’ascolto di una platea che riconosce
un linguaggio e finisce per imitarlo, a scolpirlo nei
richiami, che pensa una lingua in termini di seduzione
e inganno e la apprende, la interiorizza a tal punto
che quel primo canto suona come un primo vagito.
Così che la caccia, come rapporto tra prede, ha
una valenza rituale ed evolutiva. È il “gioco sacro” del
mangiare e dell’essere mangiati, che coinvolge la
morte attraverso le pratiche di seduzione, inganno e
nascondimento (1), e che ha forgiato il nostro passato.
In questo senso si intuisce lo sforzo da compiere di
fronte alle opere di Edoardo, che è quello di portarsi
indietro fino al passato latente che coniuga le migliaia
ai milioni di anni, che pensa l’istinto che precede
l’istituzione. Perché la caccia ha dato luogo a una
conoscenza che ha saputo definire lo spazio, scandire
il tempo, porre dei limiti e declinare percorsi,
imprimendosi fino in fondo al nostro midollo. La
preda è stata forse una delle basi su cui si sono
edificate le strutture relazionali e conoscitive, su cui
si è stipulato il rapporto tra l’umano e il suo altro,
l’animale. Pensate ai bisonti delle caverne di Altamira,
al disegno che evoca l’animale e l’anatomia minuziosa,
i tagli e i movimenti. Pensate al rapporto che la
preda, le sue dimensioni, il suo branco, ha intrattenuto
con l’organizzazione sociale. È mediante l’animale
come preda e apparizione che ci siamo fatti “muta”,
imitandoli e modellandoli, fino al punto che gli istinti
sono stati mediati, ridefiniti e istituiti come strumenti.
Possiamo dire che è in questa chiave che l’animale
è rimosso dai lavori di Edoardo, come grande
“latenza” o “nascondimento”. Perché tanto la caccia
quanto il linguaggio e l’organizzazione che li precede
hanno dimenticato e rinnegato il rapporto attraverso
il quale abbiamo immaginato e sedotto per la prima
volta qualcosa di non umano.
Così, la rimozione del segugio fa pensare al
momento in cui l’istinto del cane è stato culturalmente
modellato e ridotto a quello di predatore: il cane da
caccia è per la caccia. È strumento, macchina canina
composta di olfatto, velocità e ferocia, per cui un
segugio non è altro che naso, zampe e zanne. Resta
la preda, che è insieme fine della caccia, oggetto
parziale a cui viene dedicato e strumentalizzato un
istinto, e oggetto di sapere. Non diversa dalla figura
del segugio è la logica del richiamo per uccelli, che a
partire dal canto, dal ritornello, subordina il cinguettio
alla seduzione e all’inganno, strumentalizza l’animale
e il suo spazio. Così che il territorio, fatto di rami,
erbacce, nicchie, scoscese e pianure, si riformula per
queste derive, e diviene territorio di e per la caccia,
ma solo dopo aver imparato a cantare, a parlare.
In questi poli si gioca il lavoro di Edoardo. Da una
parte la relazione, per certi versi costituente, che
l’umano e l’animale hanno intrattenuto attraverso la
pratica della caccia; dall’altra, i processi di seduzione,
inganno e nascondimento che questa presuppone,
e che sono sottolineati nelle opere in mostra. Al cane,
che maschera la violenza della caccia con l’elogio
implicito della postura e la familiarità dell’addomesticamento
– il cane tutto naso, zampe e zanne – si
restituisce l’aspetto cruento della caccia. Al canto, al
richiamo, si riporta invece la centralità del silenzio e
dell’acquattarsi, riconsegnando, di nuovo, la violenza
alla seduzione mediata dall’inganno in un “fuori scala”
che espone innanzitutto la logica spaziale della
caccia. E qui si gioca l’ambiguità che accompagna
Manzoni nella sua produzione: la convinzione che
l’artista non agisca diversamente da un cacciatore,
che si allinei quindi agli aspetti che qualcuno chiama
“magici”, a quei rituali pittorici e ai movimenti tecnici
che la caccia, e quel bacino cognitivo “spinale” che ci
portiamo appresso da millenni, ha pensato in termini
di rappresentazione, anticipazione ed evocazione.
D’altronde è la pratica del rendere visibile quella
che la caccia ha insegnato, impresso, e che nelle
ambiguità si svela. Imparate dai fischietti enormi, dal
silenzio del monumento: la lingua comincia dalla
foresta, ma non è foresta, almeno non più; si sforza,
invece, di fare deserto.